In Italia, se non si detengono più di 51.000 euro in Bitcoin, i guadagni non sono tassati. Ma riguardo le criptovalute la normativa fiscale è confusa e frammentaria: ecco cosa dice il fisco e come evitare problemi
Con il boom delle criptovalute, il numero di investitori che hanno deciso di riporre fiducia nelle monete virtuali sta aumentando in tutto il mondo. Ed effettivamente gli avvenimenti danno loro ragione: nel 2020 il Bitcoin ha quadruplicato il proprio valore e – tra alti e bassi – la sua corsa non sembra destinata a fermarsi. Investendo in criptovalute, in molti hanno accumulato dei piccoli patrimoni, ma qui sorge un problema: come pagare le tasse. Si, perché le monete virtuali non escludono problemi con il fisco, anzi. Tuttavia, al momento, l’Italia non ha una regolamentazione fiscale specifica in merito, a differenza di altri paesi come Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti.
Infatti, la normativa fiscale italiana sulle criptovalute non si basa su una fonte univoca, ma su varie opinioni dell’Agenzia delle Entrate e su sentenze di tribunali. Ciò ha creato una varietà di interpretazioni, soprattutto online, che per i piccoli investitori possono diventare un problema: chi ha comprato criptovalute spesso non sa quali sono gli adempimenti che deve rispettare e nemmeno che nella maggior parte dei casi rischia di trovarsi in una situazione di irregolarità.
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Rispetto agli investimenti finanziari, le criptovalute si comprano e si scambiano senza intermediari su piattaforme (quasi tutte estere) che consentono un buon grado di anonimato. Degli adempimenti con il fisco deve preoccuparsi l’investitore, ma a causa di una normativa fiscale confusa e dell’assenza di una legge ad hoc, trovarsi in difficoltà risulta particolarmente facile.
Secondo Francesco Avella, commercialista esperto di criptovalute, riguardo queste ultime “nella direzione centrale di Roma (dell’Agenzia delle Entrate, n.d.r.) non c’è unanimità di vedute, e l’Agenzia stessa preferisce non sbilanciarsi ufficialmente in attesa in un intervento legislativo”. Questo significa che – al momento – per l’Agenzia le criptovalute devono essere equiparate a investimenti in valuta estera con corso legale.
Ma nonostante ciò, come riportato da Il Post, il fisco italiano chiede due cose all’investitore: indicare il valore delle criptovalute in suo possesso in dichiarazione dei redditi, a fini informativi, e pagare un’imposta sui redditi del 26% se dalle criptovalute ottiene plusvalenze, cioè un guadagno. Ma c’è un però: le imposte sulle plusvalenze vanno pagate soltanto se il valore della giacenza media nell’ultimo anno è stato superiore a 51.645,69 euro. Una norma conveniente per i piccoli investitori.
Di fatto, ad oggi chi acquista criptovalute dovrà semplicemente indicarle in una sezione della dichiarazione dei redditi chiamata “Quadro RW”, dal valore puramente informativo. Quando l’investitore deciderà di vendere le sue criptovalute, sarà quindi tenuto a pagare un’imposta soltanto se queste superano i 51.645,69 euro. Va precisato che sotto tale soglia la tassazione è zero, a prescindere dal proprio reddito.
Eppure, per quanto riguarda le imposte, l’Italia è uno dei soli 4 paesi che trattano le criptovalute come moneta tradizionale, insieme a Belgio, Polonia e Costa d’Avorio. Molti altri paesi invece le trattano come un qualunque altro asset finanziario, mentre altri ancora hanno creato una definizione ad hoc.
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Infine, in altri paesi, dal punto di vista fiscale è chiaramente normata perfino l’attività di mining, cioè la generazione di nuovi Bitcoin grazie alla potenza di calcolo dei computer. E lo stesso discorso vale anche per la detenzione di criptovalute in quanto forma di patrimonio. L’Italia invece, nonostante l’esplosione globale delle monete digitali, applica ai Bitcoin una normativa scritta prima della diffusione dell’euro. Questo perché i famosi 51.645,69 euro equivalgono esattamente a 100 milioni di vecchie lire, ai quali la legge fa ancora riferimento per la cessione di valute estere.
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