Il “diritto di essere dimenticati”: la normativa, la giurisprudenza nazionale e sovranazionale, i rapporti con la libertà di informazione. Ecco di cosa si tratta.
È proprio con la nascita e lo sviluppo di Internet che si è posto il problema del diritto all’oblio, cioè di come tutelare l’interesse dell’individuo a che non vengano riproposte vicende ormai superate dal tempo; in altre parole, il diritto di essere dimenticato, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca.
E’ umano voler rimuovere magari un momento dove si sono fatte scelte sbagliate, ma su internet le tracce rimangono.
Il diritto all’oblio è uno dei molteplici aspetti sotto i quali si manifesta il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, anche su un canale dove è molto facile rimanere in eterno.
Diritto all’oblio e diritto di cronaca sono speculari: il presupposto del primo è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è circoscritto in quello spazio di tempo necessario a informarne la collettività, e con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire.
il diritto all’oblio è oggi regolato dall’art. 17 del GDPR (Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali), il quale stabilisce una serie di criteri generali e di eccezioni, che non risultano però di facile comprensione.
L’art. 17 elenca una serie di motivi in presenza dei quali l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo (e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellarli senza ingiustificato ritardo); fra le varie ipotesi, l’interessato può chiedere la cancellazione quando i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati, o quando abbia revocato il consenso al trattamento o i dati siano stati trattati illecitamente.
Tuttavia, sempre l’art. 17 stabilisce che il diritto alla cancellazione non sussiste quando il trattamento dei dati è necessario per soddisfare alcune esigenze; fra queste, per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione oppure a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica.
Al di là di questi principi generali, resta il problema di stabilire quando il trattamento dei dati personali risulta in concreto “necessario” per esercitare la libertà di espressione e informazione o di archiviazione nel pubblico interesse.
L’ultima parola spetta sempre all’interprete, cioè all’autorità (garante privacy o giudice) chiamata a decidere .
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Sul piano operativo, chiunque intenda esercitare il diritto all’oblio può chiedere al gestore del motore di ricerca, quale titolare del trattamento, di rimuovere dai risultati di ricerca associati al suo nominativo le URL che rinviano alle fonti che riportano informazioni ritenute per lui pregiudizievoli.
In caso di mancata risposta o di risposta negativa, il successivo rimedio è il reclamo al Garante Privacy ai sensi dell’art. 77 del GDPR o in alternativa il ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria.
Se si sceglie la via del reclamo al Garante, contro la decisione è poi possibile ricorrere all’autorità giudiziaria.
Sono ormai numerose le decisioni nelle quali il Garante Privacy ha preso posizione sul rifiuto da parte dei motori di ricerca di rimuovere dai risultati di ricerca gli URL che rinviano ad articoli online su vicende giudiziarie o di cronaca, del passato più o meno remoto.
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