Cos’è la web tax e come funziona nei Paesi dove è applicata, tra cui l’Italia che si sta organizzando per proporla entro giugno.
La riforma del sistema di tassazione internazionale “è diventato un compito urgente” dato il ruolo preminente assunto dai servizi digitali: il G20 “porterà avanti il lavoro per trovare un consenso globale” e per arrivare entro metà 2021 a un accordo sulla tassazione minima delle imprese multinazionali e dei giganti del web.
Lo ha detto il ministro dell’Economia, Daniele Franco, nella conferenza stampa al termine del G20 dei ministri delle finanze e governatori.
“La segretaria al tesoro Usa Janet Yellen ha detto ai suoi colleghi del G20 che gli Usa non sostengono piu’ la clausola del ‘safe harbor’ (porto sicuro) nei negoziati in sede Osce per la tassa digitale.”
Lo scrive la Reuters sul suo sito, citando un dirigente del tesoro americano.
La clausola, proposta dal suo predecessore Steve Mnuchin, prevedeva una sorta di opzionalità della tassazione, permettendo ai colossi digitali americani di non sottoporsi alla nuova tassa. Una mossa che aveva portato ad uno stallo delle trattative.
La web tax è la tassazione sui guadagni delle grandi compagnie che operano nel web (dall’e-commerce alla pubblicità online) come Google o Amazon. L’Italia di recente ha giocato d’anticipo introducendo una norma transitoria in attesa che si arrivi a trovare una soluzione a livello sovranazionale.
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A livello internazionale sono state diverse le proposte di intervento per definire una tassazione che aderisca alla nuova realtà della economia digitale, ma sul piano operativo i singoli paesi si sono mossi in ordine sparso.
In molti casi le soluzioni adottate, o nella maggior parte dei casi solo proposte, sono state di tipo parziale e contingente ai problemi esaminati. Inoltre, in diversi paesi, le norme introdotte sono state abrogate dopo breve tempo.
Regno Unito, tassa al 25%.
Il meccanismo che va sotto il nome di Diverted profits tax (Dpt) è stato introdotto nel 2015 e prevede una tassazione del 25% ma in due situazioni ben precise.
Il caso India.
In India esiste l’equalization levy: si tratta di una forma di prelievo a carattere compensativo che parte dall’obiettivo di garantire lo stesso trattamento tra operatori domestici ed estero.
Il tentativo dell’Italia.
Con la legge di stabilità 2014 si era realizzato un primo tentativo di tassazione dei prodotti digitali. Una misura mai entrata in vigore perché prima sospesa con un decreto e poi definitivamente abrogata dal Governo Renzi (DL 16 del 6 marzo 2014) vietava a imprese e professionisti di acquistare servizi pubblicitari online da aziende che non fossero munite di partita Iva italiana.
Con la manovrina entrata in vigore a giugno scorso è stata introdotta una norma ponte che prevede per i giganti del web con oltre un miliardo di fatturato e un giro d’affari di almeno 50 milioni di euro, la possibilità di stringere accordi preventivi con l’Agenzia delle Entrate.
I colossi del web come Amazon, Google e Facebook pagano la maggior parte delle tasse nel paese dell’Ue in cui hanno sede (Irlanda, Olanda, Lussemburgo per esempio). Spesso pagano molto poco nei paesi in cui raccolgono la maggior parte dei ricavi.
Lavorare alla nuova riforma, tuttavia, non sarà facile. “Molti Paesi si sono detti a favore di una soluzione globale ma il diavolo sta nei dettagli e passare da un accordo sulle linee guida a uno dettagliato con i tanti aspetti piccoli e grandi da definire non sarà una passeggiata, e la soluzione non facilissima“, ha precisato il ministro Franco. “Si discute della tassazione delle multinazionali, alcune di queste sono anche aziende digitali che operano sul web, trovata una soluzione su questo si porrà poi il problema di come calarla sulle imprese del web”, ha aggiunto.
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