Caso Oracle, forse è finita: la Corte Suprema dà ragione a Google

La disputa decennale tra Oracle America Inc. e Google Inc. è forse giunta al termine: la Corte Suprema ha ribaltato il verdetto espresso nel 2018 e dato ragione a Google

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Una delle cause più importanti di sempre con al centro il mondo della tecnologia sembra finalmente giunta al termine – MeteoWeek.com

Il caso Oracle contro Google verrà sicuramente ricordato come una delle battaglie legali più lunghe e rilevanti di sempre con protagonisti due autentici colossi della tecnologia. Intentata da Oracle America nell’ormai lontano 2010, dopo tanti capovolgimenti di fronte, nella giornata di lunedì – 5 aprile 2021 – la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato ragione a Google, con una maggioranza di 6 a 2. La causa multimiliardaria accusava il re dei motori di ricerca controllato da Alphabet di violazione del copyright. Più precisamente, secondo i vertici di Oracle, Google avrebbe utilizzato la tecnologia software di programmazione Java (appunto di proprietà di Oracle) per lo sviluppo del sistema operativo Android, violando copyright e brevetti. Ricordiamo che Oracle aveva infatti rilevato Java proprio nel 2010, nell’ambito della sua acquisizione di Sun Microsystems.

Per questo, Oracle aveva chiesto inizialmente ben 9 miliardi di dollari di risarcimento danni. Dopo varie sentenze e ricorsi, nel marzo 2018 la Corte d’Appello aveva dato ragione a Oracle. Tuttavia, nel 2019, Google ha deciso di interpellare la Corte Suprema, che ha deciso di accettare il caso (lo stesso tentativo era stato fatto nel 2015, ma in quel caso la Corte Suprema rifiutò di esaminarlo).

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Caso Oracle, la Corte Suprema dà ragione a Google: le motivazioni

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Java, protagonista di questa lunga vicenda – MeteoWeek.com

Ora, quindi, la Corte Suprema si è espressa, dando ragione al colosso di Mountain View. Gli alti magistrati hanno infatti considerato corretto l’utilizzo da parte di Google di una porzione di codice Java per le API (Application Programming Interfaces), cioè veri e propri intermediari software che permettono ad app, siti e programmi di dialogare fra loro. La scelta della Corte Suprema è stata basata sull’interpretazione della cosiddetta clausola del fair use nelle leggi americane sul diritto d’autore e la proprietà intellettuale. Questa norma regolamenta la possibilità di ricorrere a materiale protetto da copyright, in alcune condizioni, senza bisogno di esplicita autorizzazione.

Effettivamente, il fair use era proprio l’argomentazione sostenuta da Google. L’azienda ha infatti cercato di dimostrare che questo genere di codice viene usato normalmente dagli sviluppatori per migliorare le funzionalità dei prodotti. Il caso legale era seguito con attenzione dall’intero settore hi-tech americano e non solo, proprio per le potenziali ripercussioni nella creazione di software.

I pareri delle parti

Naturalmente, Oracle ha reagito duramente a questa sconfitta, arrivata dopo una battaglia decennale: “Hanno rubato Java e speso un decennio in battaglie legali come solo un monopolio può fare. Questo comportamento è esattamente la ragione per la quale le autorità mondiali e degli Stati Uniti stanno esaminando le pratiche di business di Google”.

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Contenti, invece, i vertici di Google, che hanno parlato di “una vittoria per i consumatori, per l’informatica e per l’interoperabilità”. Dalla parte di Google si erano schierati pubblicamente anche altri grandi protagonisti del settore, come Microsoft, Mozilla e Red Hat.